I quesiti referendari sulla Giustizia
Interventi svolti al Circolo PD Aniasi.
Sto assistendo in questi giorni a comunicati stampa dei promotori dei referendum in cui si dice che non si discute dei referendum per colpa nostra ma non è vero: sono impegnato praticamente tutte le sere e tutti i pomeriggi in dibattiti sul tema. Credo, quindi, che se le persone non dovessero andare a votare non sarà per la scarsa pubblicità sui referendum.
Stiamo parlando di 5 referendum promossi da 9 Consigli Regionali di centrodestra, dentro ad un’operazione politica a tutto tondo. Sicuramente non sono i referendum proposti dai cittadini, come invece erano quelli sul suicidio assistito o quello sulla liberalizzazione della cannabis, che poi ha bocciato la Consulta.
Questi sono referendum complicati.
Ho guardato in Tv il film “Bianco, rosso e verdone” e c’è la scena in cui la nonna finalmente arriva al seggio, entra e non esce più e io ho pensato che probabilmente faranno così quelli che arriveranno per votare i referendum: si metteranno a leggere, ad esempio, la scheda gialla e cercheranno di capirla.
I quesiti sono complicati e incomprensibili per la maggior parte dei cittadini, soprattutto i 3 quesiti sull’ordinamento giudiziario, che oltretutto non dovrebbero essere materia di referendum, tanto meno abrogativo.
Il PD ha detto fin da subito che il quesito sulla Legge Severino e quello sulle misure cautelari erano sbagliati e pericolosi e che avremmo votato No.
Sugli altri abbiamo detto che avremmo votato No anche per il contesto in cui siamo perché su quei temi, in Parlamento, si sta approvando la riforma Cartabia sull’ordinamento giudiziario: il testo è già stato votato a larga maggioranza alla Camera dei Deputati e dal 16 giugno si voterà al Senato.
È evidente che non serve abrogare delle norme ma fare finalmente delle riforme sulla Giustizia. Con i referendum, però, si rischia di rimettere in discussione il lavoro svolto fin qui e di riaprire una discussione che in Parlamento va avanti da due anni e che ha portato alla riforma Cartabia.
La questione della Legge Severino è molto italiana.
Ci sono Paesi in cui, se un Ministro non consegna uno scontrino, viene costretto sostanzialmente alle dimissioni per ragioni di opportunità, senza che le leggi lo impongano. In Italia questo non è mai successo.
Ricordo il clima culturale in cui è maturata la Legge Severino: c’era l’idea di dover fermare le candidature e sospendere chi era in carica e aveva commesso reati di un certo tipo con una norma amministrativa. La Legge Severino, infatti, è una norma amministrativa che sostiene che un soggetto condannato per reati di un certo tipo non può stare nelle istituzioni e non può essere candidato.
Esistono norme penali per cui il magistrato può decidere comunque l’interdittiva dai pubblici uffici. La forza della Legge Severino è che fa questo per automatismo, senza aspettare l’intervento della magistratura.
La legge è imperfetta anche perché sospende immediatamente amministratori locali che hanno avuto una condanna in primo grado e questo non va bene.
Da un anno e mezzo abbiamo già depositato in Parlamento una proposta di modifica della Legge Severino per fare in modo che per la sospensione degli amministratori locali si attendesse la condanna definitiva ma le forze promotrici del referendum non hanno voluto approvarla proprio per poter far votare il referendum. Eppure il referendum dice una cosa diversa: il quesito mira ad abrogare tutta la Legge Severino e non soltanto una parte o a modificarla.
Credo, quindi, che se vincesse il Sì a questo quesito sarebbe un segnale molto negativo.
La Legge Severino ha anche altre imperfezioni. Al Senato, ad esempio, c’è un senatore condannato in primo grado per associazione mafiosa ma, per i parlamentari, la sospensione dagli incarichi scatta con la condanna definitiva in terzo grado.
Tutto è perfezionabile, dunque, ma credo che la Legge Severino sia da difendere perché stabilisce il principio che, chi si macchia di alcuni reati e viene condannato, non può stare nelle istituzioni. Questo è un problema del Paese, dove non c’è la cultura per cui basta una scorrettezza per essere costretti a dimettersi e la Legge Severino è una norma che va in quella direzione e va difesa.
È chiaro che la Giustizia italiana ha dei problemi ma i referendum abrogativi non li risolvono, anzi, rischiano di aggravarli.
Il referendum abrogativo è dentro ad un disegno che sta cercando di riproporre una discussione ideologica e una guerra infinita che contrappone magistrati a politici, garantisti e giustizialisti, scegliendo alcune questioni simboliche non per affrontare i problemi ma per regolare i conti.
Il quesito sulla separazione delle funzioni dei magistrati, ad esempio, sarebbe già risolto dalla riforma dell’ordinamento giudiziario che stiamo per approvare definitivamente in Parlamento.
Perché una persona che vince il concorso in magistratura deve essere costretta per tutta la sua vita professionale a fare l’inquirente o il giudicante? Con la riforma Cartabia il passaggio può avvenire una sola volta e la scelta va fatta entro i primi 10 anni, quindi è già un limite posto ai cambi di ruolo.
Il referendum, però, vuole evocare la separazione delle carriere, cioè l’idea che i giudicanti e gli inquirenti non debbano stare nella stessa giurisdizione e non debbano essere governati dal solo CSM.
In quel modo, però, i PM - che oggi svolgono un ruolo istruttorio - rischiano di diventare solo quelli che accusano.
Il problema dei troppi passaggi da PM a giudicanti non la risolve il referendum.
Così come il referendum non risolve il problema dell’eccessivo utilizzo della misura della custodia cautelare in carcere per gli indagati.
Il problema, però, non si risolve spiegando che vanno tolte tutte le misure restrittive che possono garantire le vittime dal tentativo di reiterazione del reato.
Si tratta di reati come lo stalking, le truffe agli anziani, lo spaccio in cui anche se gli indagati vengono colti sul fatto non potrebbero subire misure cautelari pur se rischiano di continuare a commettere lo stesso reato.
In questo anno e mezzo di Legislatura abbiamo fatto quello che non si è fatto in questi trent’anni e abbiamo fatto riforme vere che intervengono sui problemi dei cittadini.
La riforma del processo civile che velocizza i tempi, incentiva l’utilizzo di altre forme come la mediazione o il patteggiamento, aiuta a ridurre del 40% i tempi del processo civile, come chiesto dall’Europa.
La riforma del processo penale interviene anche sul tema della carcerazione e noi ci siamo battuti affinché il carcere sia utilizzato solo come estrema ratio, in quanto prima ci devono essere la messa in prova, le contravvenzioni, il braccialetto elettronico, una serie di misure che fanno davvero del carcere l’estrema ratio.
Questa è una riforma fatta.
Così come abbiamo fatto la riforma della presunzione di innocenza per risolvere il tema del conflitto tra magistrati e politici. Con la nuova legge, i magistrati che fanno le indagini non possono più fare conferenze stampa se non motivate e autorizzate dalle Procure, per evitare che finiscano in prima pagina semplici indagati, già messi alla gogna come se fossero colpevoli.
Abbiamo fatto, quindi, già una parte importante di riforme.
Al Paese serve fare riforme vere.
La separazione delle funzioni, la riforma del sistema elettorale per eleggere i membri del CSM e la possibilità per gli avvocati di avere più voce in capitolo nella valutazione dei magistrati sono contenute nella riforma dell’ordinamento giudiziario della Cartabia già votata alla Camera dei Deputati a larghissima maggioranza.
Votare sì a quei referendum rischia rimettere in discussione l’equilibrio che si è trovato sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, in cui quelle questioni trovano una risposta.
Con la riforma, ad esempio, la Commissione Disciplinare dovrà essere composta da membri del CSM dedicati solo a quello, evitando, quindi, l’intreccio che produceva i problemi emersi dal caso Palamara.
Mi sono espresso contro i referendum fin dall’inizio e ho detto subito che avrebbero potuto essere dannosi, in quanto intervenivano sul clima positivo che ci ha portato a fare le riforme vere che intervengono su ciò che conta per dare risposte ai cittadini.
Con la riforma approvata tempo fa si sono istituiti gli uffici del processo e sono state assunte 18 mila persone, con i fondi del PNRR, per farli funzionare, aiutando i magistrati a fare meglio e a smaltire gli arretrati.
È stata già finanziata la digitalizzazione degli uffici giudiziari.
Questo è il modo di far funzionare meglio la Giustizia nel Paese.
A meno che non si voglia fare della Giustizia ancora un punto in cui va avanti una guerra senza pensare a ciò che serve al Paese.